21
Giorno 4, Reparto Psichiatria, Ospedale San Martino, Genova
Mi ritrovo in un posto fuori dal mondo e dal tempo. Dicono che i manicomi degli anni 70’/80’ non ci siano più, che i sistemi per curare queste malattie siano cambiati, che siano più moderni.
Mi guardo attorno e vedo quanto non sia vero.
Vedo stanze nelle quali le persone passano tutte le ore del giorno e della notte e non vedo mai una finestra aperta, per far entrare aria fresca, per far entrare il sole o quel vento fresco di inizio Ottobre. Dove mi trovo è una cella accogliente, con peluche e biscotti, ma le sbarre e le reti alle finestre rimangono lì, ferme e spaventose a dirmi che la mia liberà mi è stata tolta, completamente sbriciolata. Le altre persone ricoverate non sembrano minimamente toccate da tutto questo. Le poche volte che esco dalla stanza, le vedo insieme a chiacchierare, a passeggiare avanti e indietro per il corridoio, in un modo che trovo ridicolo. Le trovo a disegnare nella stanza comune, che sembra un vecchio magazzino ripulito alla bene e meglio, a giocare a Uno, a fumare una sigaretta e parlare in modo strano o di cose assurde.
Andare al bagno è una sfida, un atto di coraggio; le porte non si chiudono a chiave, non mi resta che sperare che nessuno tra quelli più fuori di testa entri mentre faccio la pipì, specialmente gli uomini.
Mi fa ridere che i medici, quando ci parlo, si convincano che uomini e donne siano separati e che gli infermieri intervengono subito; non hanno la minima idea di come funziona qui dentro. Mi sono sfortunatamente fatta notare da un signore completamente fuori di testa, ha provato a baciarmi, mi scambia per sua figlia, mi urla che se non lo considero si fa fuori. Me lo trovo in camera, quando sono a letto, mi viene lì vicino.
Sono spaventata nel fare qualsiasi cosa, solo nei miei pensieri mi sento al sicuro.
Non ho la mia privacy, completamente sparita. Nella mia stanza entra chiunque senza bussare e poi non è solo mia, c’è un’altra ragazza. Non ho le mie cose, le mie bustine con i trucchi, le mie cremine, i miei elastici e mollette per capelli, non ho il mio quaderno, penne, matite colorate. Niente. Ogni volta che si scarica il computer devo farlo ricaricare agli infermieri, che nemmeno riconoscono un caricatore per telefoni da uno per computer. Mi hanno tagliato i cordini dei pantaloni, tolto le stringhe dalle scarpe. Penso a quanto sia folle tutto ciò, ma forse lo è come arrivare a volersi uccidere.
La cosa strana è che io non mi sento mai capita, in generale, come se non ci fosse qualcuno che la pensa come me. Credevo potesse essere perché sono malata, magari è questo che mi fa avere comportamenti un po’ strani. Ma stando qui ho capito che non c’entra un bel niente. La gente qui non riesce nemmeno a porsele certe domande.
Non fanno per me, neanche un po’. E tutte queste regole: non fanno per me, io voglio essere libera ed indipendente, da sempre, la mia libertà è il bene più prezioso. Qui ci camminano sopra e la incassettano marchiandola con il numero del tuo letto. Il 21.
Come possano pensare che io stia meglio in un posto del genere? Voglio solo andarmene, ma non perché voglio morire. Me ne voglio andare perché voglio essere libera, voglio riavere le mie cose, la mia privacy. Voglio mangiare alla cazzo di ora che mi pare, fumare quando mi va e non negli orari stabiliti e nemmeno in una stanza immersa in una nuvola di fumo. A me da fastidio il fumo, anche se lo faccio.
Non mi importa assolutamente nulla se queste regole servono per salvaguardare i pazienti più gravi: io non sono qui per curare loro. Io sarei qui per riposarmi, riprendermi, rilassarmi, pensare a me stessa e stare meglio. Non mi è possibile farlo in questo posto.
Come ci si può rilassare se ti hanno tolto i lacci dalle scarpe? I miei fiocchetti alle Puma. Mi manca cenare a mezzanotte, fare colazione con i Coco Pops due volte e pranzare alle quattro. Mi manca il mio bagno asettico, che profuma di lavanda e ha il tappeto peloso in terra per lavarsi i denti. Mi mancano le mie cremine per ogni parte del corpo. Mi manca il mio armadio organizzato, mentre ora ho solo un armadio sporco in cui accumulare tute e pigiami, senza poter mettere quelli sporchi in un sacchetto, perché i sacchetti sono pericolosi, potrei soffocarmi o soffocare qualcuno o qualcuno soffocare me.
Mi sento in prigione, ma non ho fatto niente. Ogni volta che guardo i muri, così spogli e grigi, mi viene da piangere. Non posso stare meglio in un posto simile; se devo guarire per me, e non per gli altri, come mi è stato detto, il primo passo è uscire di qui.
Sono finita qui perché ho toccato un fondo, molto giù giù. Non voglio mai più tornarci, non importa quanto mi costerà togliermi certe soluzioni dalla testa, quanto sarà dura rispondere sempre che sto bene anche se non è vero, non chiedere aiuto a nessuno, non riceverne da nessuno. Quanto possiamo essere solitari noi uomini, quanto poco amore c’è dentro le persone, che ti sbattono in prigione perché hai fatto una domanda socialmente sbagliata.